La ragazza del treno
La domanda più importante per chi fa contenuti digitali. Per rispondere, facciamo un giro nell'Hokkaido.
Ciao,
eccomi, tornato a casa dopo qualche settimana trascorsa nell’altro emisfero. Vedo che l’inverno non è ancora finito, almeno a Milano.
Mentre ero in viaggio, però, questa newsletter ha compiuto 5 anni. Sul vecchio sito di Ellissi c’è ancora il primo numero, spedito il 27 marzo 2020.
Grazie a chi è qui oggi — e grazie ancor di più alle circa 60 persone che c’erano già quel venerdì di marzo. I know who you are.
Ci vediamo in giro!
Buona lettura,
Valerio
La ragazza del treno
Ogni mattina, per tre anni, sulla banchina della stazione ferroviaria di Kyu-shirataki c’era una sola persona in attesa.
Il suo nome era Kana Harada, una studentessa giapponese appena sedicenne.
La ragazza aspettava un treno che la portasse da casa a scuola — un viaggio piuttosto breve, di circa trentacinque minuti.
Non dev’essere stato facile per lei crescere in quella parte remota dell’Hokkaido.
Negli ultimi anni, dopo la chiusura delle principali fabbriche di legname, la regione aveva iniziato a spopolarsi. Nel suo paesino vivevano appena 36 persone.
Anche la stazione che frequentava assomigliava sempre più a una reliquia di un tempo passato.
La compagnia ferroviaria aveva rinunciato persino a tenere aperta la biglietteria.

Eppure, c’era una ragione se a Kyu-shirataki fermavano ancora i treni, ogni mattina e ogni sera.
E la ragione era proprio lei, Kana.
Nel 2014 i vertici della Japan Railways, dopo avere scoperto la storia della studentessa, avevano infatti deciso di mantenere aperta la stazione.
Che rimase in funzione fino al 2016, il tempo necessario affinché la ragazza terminasse i propri studi e conseguisse il diploma.
Fuori dai binari del reale
Questa storia, vecchia ormai di un decennio, ebbe ai tempi una grande risonanza mediatica.
A renderla virale su Facebook fu un post diffuso da CCTV NEWS, la televisione nazionale cinese, poi ripreso da numerose testate americane tra cui Bloomberg e Insider.
Ancora oggi sembra una storia troppo bella per essere vera.
E infatti devo dirti, con un po’ di dispiacere, che non lo è.
Pur non essendo completamente fake, è ampiamente romanzata.
Kana Harada prendeva davvero quel treno per studiare. Ma Harada non era sempre sola: con lei c’era anche una dozzina di compagni di scuola.
E la decisione di chiudere la stazione di Kyu-shirataki nel 2016 per mancanza di passeggeri era stata presa dalle ferrovie giapponesi già da tempo, in modo totalmente indipendentemente dalla vicenda della giovane.
Persino la ragazza, intervistata, disse che dopo la chiusura avrebbe potuto prendere il treno in un’altra stazione non troppo distante. Semplicemente avrebbe dovuto svegliarsi un po’ prima.
Ovviamente è facile immaginare come una storia simile possa essersi diffusa così tanto, avendo tutti gli ingredienti di una ricetta perfetta: la malinconia del treno vuoto, la resistenza di una giovane in un mondo che svanisce, eccetera eccetera.
Ad alcuni la storia ricordò persino un film di Gorō Miyazaki del 20111, La collina dei papaveri, in cui una studentessa adolescente - il padre morto, la madre assente - viveva in una grande casa ricavata da un ex ospedale insieme ai nonni e ai fratelli.
Il treno del content
Ora, fregandocene per un attimo dell’attendibilità della storia, prendiamola per quello che può ispirare.
Nel mio caso, una riflessione sul mondo dei contenuti digitali (ma anche in generale di qualsiasi prodotto o servizio).
In questi anni di lavoro nel mondo dei media, come giornalista e come consulente per testate e creator, pongo spesso una domanda fondamentale.
«Per chi lo stai facendo?»
È un interrogativo assolutamente non banale.
Molto spesso ricevo risposte vaghe o confuse. Chi lavora nei media raramente sa davvero a chi ci si rivolge. Ed è un problema.
Progettare per uno “specifico qualcuno” è però importante, perché significa concentrarsi sull’impatto che il nostro messaggio ha sulla persona e non solo sulla quantità di pubblico che vorremmo raggiungere.
Quando indirizziamo i nostri contenuti verso un identikit preciso - un “chi” concreto, riconoscibile, di cui conosciamo storia, vissuto, sogni e bisogni - la nostra comunicazione diventa estremamente più efficace.
Invito quindi sempre divulgatori, giornaliste, creator e aziende a chiedersi:
Chi è la tua studentessa in attesa del treno?
Chi è la tua Kana Harada?
Immaginiamo che il nostro piano editoriale sia il treno che mettiamo a disposizione della nostra audience, e che ogni post, reel, o articolo che produciamo sia un vagone, un’unità di content collegata meccanicamente a quella che la precede e a quella che la segue.
Questo ci pone una domanda ulteriore, altrettanto importante: in quale direzione stiamo portando i nostri “passeggeri”? Come facciamo sì che i nostri contenuti siano coerenti e funzionali per accompagnare i lettori alla meta?
Per rispondere, dobbiamo tornare al punto di partenza: ovvero chiederci se conosciamo davvero la nostra Kana Harada. Se sappiamo cosa cerca, cosa vuole e quali sono le sue necessità.
Perché progettare contenuti pensando primariamente ai bisogni reali del pubblico, e non ai diktat imposti dalle metriche, è il primo passo per coltivare la fiducia delle persone nel nostro viaggio informativo.
Ma una sola persona basta?
Capisco l’obiezione.
Da un lato, sappiamo che la struttura economica della rete e dei social ci spinge a riempire i vagoni il più possibile. Un treno che parte semivuoto ci sembra uno spreco di risorse.
Tuttavia, credo che ragionare in piccolo e focalizzarsi su un singolo individuo sia un ottimo punto di partenza, e che aiuti ad attirare anche altri viaggiatori con gusti e bisogni affini.
Ricordiamoci che anche un pubblico piccolo, ma molto specifico, può avere un grande valore.
Certo: a volte dobbiamo essere disposti a tenere aperta la stazione anche se il traffico è basso.
Ma persino i treni per una singola studentessa hanno senso, se una volta “scesa” avrà imparato cose nuove.
Per me il contenuto più giusto non è quello che funziona sempre per tutti, ma quello che fa dire a qualcuno:
«Questo è esattamente quello che mi serviva».
Alla prossima Ellissi
Valerio
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📂 Dall’archivio
Editing del 18 aprile alle 8.51. Per evitare confusione ho aggiunto il nome dell’autore del film La collina dei papaveri. Si tratta di Gorō Miyazaki, figlio di Hayao. Alla sua carriera da architetto e paesaggista, Gorō Miyazaki ha affiancato quella di animatore. Il suo film più famoso, anch’esso prodotto dallo Studio Ghibli, è I racconti di Terramare, del 2006.
Articolo molto interessante. Io me lo sto chiedendo e penso di non avere una risposta univoca. Io faccio contenuti per raccontare il mondo dei videogiochi, dei libri e sull’intelligenza artificiale, ma non so se può bastare come risposta .
Articolo interessantissimo. Io da qualche anno ho deciso di occuparmi esclusivamente di formazione. So che è semplice e forse banale, ma la ricetta che ho trovato per svincolarmi dalle logiche degli algoritmi, in quel famoso treno giapponese chi sale, sale, gli altri....