Il grande gioco dell'engagement
Cosa vuol dire «essere coinvolti» nell'era in cui tutto è un gioco?
Ciao: è novembre a Milano. Serve aggiungere altro?
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In questo episodio parliamo di giochi dopaminici e di misurazioni mistificanti.
Intanto, buona lettura!
Valerio
Il grande gioco dell'engagement
Gioco con una certa regolarità a Wordle, il popolare passatempo enigmistico del New York Times.
Le regole del gioco sono piuttosto semplici: bisogna indovinare una parola segreta, di cinque lettere, entro un massimo di sei tentativi. Ogni giorno, a mezzanotte, la parola cambia.
In questi anni mi sono tolto diverse soddisfazioni. Eppure non sono mai riuscito a indovinare la parola del giorno al primo tentativo (anche se qualche giorno fa ci sono andato vicinissimo, pfff).
Wordle, così come altri passatempi enigmistici di proprietà del Times - come Strands, Connections e Spelling Bee - sono ospitati sul sito e all’interno di un’app dedicata, NYT Games.
Secondo alcune stime, Games è oggi l’applicazione di maggiore successo tra quelle proposte del giornale: il suo livello di engagement è più alto rispetto all’app principale, quella dedicata alle news.
Questo ha spinto qualcuno a sfornare titoli roboanti, tipo questo, secondo cui «il New York Times non è più una media company, ma una gaming company».
È un’esagerazione bella e buona, ma ha un fondo di verità: i “giochini” sono diventati uno strumento importante per i giornali nell’attrarre utenti e lettori.
Quello del quotidiano con sede a Manhattan, che di questo fenomeno è stato pioniere, non è certo un caso isolato. Sono tanti gli editori che oggi puntano su puzzle ed enigmistica per tenere le persone incollate allo schermo.
Solo in tempi recenti, Mashable ha lanciato la propria sezione Games, BuzzFeed la sua BuzzFeed Arcade, e Vulture ha creato Cinematrix, un trivia a tema cinema.
Nel 2023 colosso dei magazine Hearst ha acquisito Puzzmo, una piattaforma collaborativa di puzzle games.
E in Italia, se Repubblica ha digitalizzato il cruciverba di Stefano Bartezzaghi, il Corriere ha fatto altrettanto.
La ragione dietro a questa epidemia è semplice: i giochi riescono a coinvolgere gli utenti maggiormente rispetto ai contenuti giornalistici tradizionali.
In primo luogo, perché spingono le persone a tornare tutti i giorni, creando fidelizzazione.
In secondo luogo, perché aumentano il tempo speso medio degli utenti sulle app e sui siti.
Infine, perché offrono un certo sollievo mentale, cosa da non sottovalutare in un periodo buio come questo.
A cavalcare il trend non sembrano essere più solo i giornali, ma anche le piattaforme video e social.
Netflix sta entrando nel mondo dell’enigmistica: qualche giorno fa ha lanciato Tumblewords, una sorta di anti-Wordle realizzato in collaborazione con TED.
Da qualche mese, poi, LinkedIn ha introdotto i suoi primi giochi online - Queens, Crossclimb, Pinpoint, cui da poco si è aggiunto Tango - per stimolare i suoi utenti a… non lavorare. Lol.
Ed è di questi giorni la notizia che Instagram sta testando dei giochi in tempo reale che gli streamer possono utilizzare per coinvolgere le community durante le loro live.
Insomma, la battaglia per la nostra attenzione passa anche attraverso queste forme di intrattenimento mordi e fuggi, che spesso fungono da supporti ancillari rispetto alla proposta di valore primaria.
I motivi sono molteplici, come accennavo prima.
I giochi enigmistici hanno dimostrato di poter diventare un magnete in grado di creare abitudine, tenendo alto l’engagement, a costi tutto sommato contenuti.
Tattica vs. strategia
Mi sorge però un interrogativo, credo legittimo: usare i giochi per aumentare l’engagement degli utenti non conduce al rischio che il prodotto secondario finisca per diventare quello principale?
Oggi molti utenti aprono un’app del New York Times per giocare, ma questa azione li spingerà anche a leggere le notizie del giorno? Probabilmente no.
Qualcuno dirà: i cruciverba sui quotidiani sono sempre esistiti. Vero. Ma erano parte di un percorso di fruizione lineare dello sfoglio, che idealmente partiva dalla prima pagina e arrivava fino al momento di “svago” conclusivo.
Oggi la frammentazione delle esperienze digitali cambia il modo in cui percepiamo cosa è prodotto primario e cosa è prodotto secondario: possiamo usare Wordle con costanza, e al contempo ignorare consapevolmente la homepage del New York Times.
Il mio dubbio è dunque che i giochi possano portare effetti positivi nel breve termine, ma anche effetti negativi nel lungo periodo, come la confusione sulla vera identità e missione di ciascun brand digitale — sia esso LinkedIn o il nostro giornale di riferimento.
Concludendo: l’engagement ci ingabbia?
C’è forse una domanda finale che dobbiamo porci, e che riguarda la “sacralità” dell’engagement.
Negli ultimi anni media e piattaforme hanno elevato l’engagement a «metrica regina» per determinare il successo dei progetti digitali — che si parli di un sito, un profilo Instagram, una sponsorizzata.
Il mio sospetto è che a volte l'engagement non rifletta altro che un generico interesse da parte dell’utente, ma che non per forza questo si tramuti in un generatore di valore.
Le azioni che tracciamo per determinare il coinvolgimento di un utente - come lo scroll di una pagina web, il click su un bottone, o il “cuoricino” lasciato sotto a un post - non necessariamente si traducono in risultati economici rilevanti, né ci garantiscono di avere costruito una community.
Questo equivoco nasce, credo, perché usiamo l’engagement come fosse una metrica qualitativa, mentre nella maggior parte dei casi è ancora principalmente quantitativa.
La stessa Facebook ha ammesso in passato il misunderstanding. In un report, ha specificato che «le ricerche di settore hanno ripetutamente dimostrato che i tassi di coinvolgimento non sono correlati con i risultati per giudicare il successo degli sforzi di marketing».
Insomma, l’engagement corre il rischio di diventare una specie falso positivo: una scarica di dopamina, che però non garantisce benefici nel lungo periodo.
Come scrivo nel mio libro Riavviare il sistema, potremmo ribattezzare ironicamente questa metrica «encagement», da cage, gabbia: un meccanismo produci-reazioni alimentato da algoritmi di cui siamo, in un certo senso, prigionieri.
E quindi, dovremmo porci domande diverse.
L’engagement che stiamo misurando si trasforma in reale valore? Il nostro prodotto è in grado di coinvolgere le persone, ma anche di soddisfarle? Il rischio altrimenti è di trasformare una metrica in un vate pericoloso, un segnale fuorviante che ci porta fuori strada.
Come sempre, sono curioso di sapere cosa ne pensi. Io continuo a rifletterci più tardi, mentre gioco al mio Wordle di oggi.
Chissà, magari è la volta buona che la indovino con una.
Alla prossima Ellissi
Valerio
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Worldle è proprio una gioia da giocare, soprattutto per quella sua unica possibilità al giorno. Ah, mai riuscito nemmeno io a beccare la parola al primo colpo 😄.
D'accordissimo con la tua riflessione. È un po' come scrivevo riguardo all'uso di trend, creator o dell'entertainment nei branded content. Funzionano, ma il rischio è che spesso, avendo più "peso" per gli utenti, travalichino il prodotto stesso.
Serve un bilanciamento spesso complesso da trovare/gestire