Ciao,
era un po’ che volevo raccontare quello che sta succedendo al Washington Post di Jeff Bezos, quindi eccoci qua.
Credo sia una storia allo stesso tempo unica e piuttosto rappresentativa di quello che sta succedendo al mondo dei media.
Grazie a FutureProofSociety per essere partner della newsletter di oggi; il loro report sulle age verification sui social è ricco di spunti interessanti.
Se vuoi prenotare un’uscita pubblicitaria su Ellissi per settembre o ottobre, questo è il momento giusto.
Anche perché stacco per un po’: ci risentiamo a fine agosto!
Buona lettura,
Valerio
Ps. L’ebook del mio libro Riavviare il Sistema è in sconto a €1.99 il 23 luglio per sole ventiquattr’ore, approfittane.
Social e minori: come garantire protezione e migliorare le piattaforme?
Fin dall’inizio, i social hanno scatenato un dibattito acceso su un tema importante e delicato: a quale età è giusto aprire un account su piattaforme come TikTok, Instagram o Snapchat?
Nonostante le piattaforme vietino l’accesso ai minori di 13 anni, i dati dimostrano che questa regola viene spesso infranta: secondo diversi studi, in Italia tra il 40% e il 63% degli 11-13enni è già attivo sui social, anche aggirando i controlli dei genitori.
Quali strumenti abbiamo a disposizione per affrontare questo problema? Un nuovo report, prodotto da FutureProofSociety in partnership con Italia Tech Alliance e InnovUp, approfondisce il tema della age verification sul web portando ipotesi interessanti e arricchendo il dibattito.
Al momento, il modello di verifica dell’età è “distribuito” — in sostanza, ogni piattaforma è responsabile di controllare i propri iscritti. Ma questo sistema, si legge nel report, ha un costo elevato e presenta diverse inefficienze.
Un’alternativa valida potrebbe essere rappresentata dalla creazione di un sistema centralizzato, che potrebbe contribuire a ridurre del 60 – 85% l’accesso non autorizzato ai contenuti vietati tra i minori di 13 anni, i più vulnerabili.
Questo secondo approccio garantirebbe maggiore uniformità, ma richiederebbe la necessità di affrontare alcuni interrogativi legati alla privacy, alla governance e alla potenziale concentrazione di potere tra i sistemi che gestiscono l’identità.
Il report «Age verification: se non ora, quando?» è uno starting point importante per approcciare la conversazione sulla regolamentazione dell’uso dei social da parte dei minori. Per avviare un dibattito nuovo e cercare di trovare la soluzione migliore per tutte le parti coinvolte: le famiglie, le imprese, gli attori tecnologici e le istituzioni pubbliche.
Se il tema ti interessa e vuoi saperne di più, lo trovi qui:
L'ultima copia del Washington Post
Nella vita di Jeff Bezos ci sono tante cose che vanno bene. Molto bene.
Il Washington Post non è una di queste.
Il «giornale dei Pulitzer», di sua proprietà da oltre un decennio, si trova infatti in una crisi nera dal futuro sempre più incerto.
Dopo averlo acquistato nel 2013 per 250 milioni di dollari - appena l’1 per mille del suo patrimonio, stimato a 238,2 miliardi - il fondatore di Amazon aveva cercato di rilanciarlo e di “modernizzarlo”, assumendo decine di sviluppatori, data scientist e programmatori.
L’obiettivo era quello di creare una «piattaforma tecnologica» in grado di innovare il rapporto con i lettori, il sito e le app per creare un giornale di nuova generazione. «Non abbiamo nulla da invidiare a una tech company della Silicon Valley», disse nel 2015.
Dodici anni dopo, però, di quei proclami resta ben poco. E mentre Amazon festeggia i suoi primi 30 anni con le azioni ai massimi storici, il Post naviga in pessime acque, economiche ed editoriali.
Cos’è successo?
Il momento di svolta di questa storia è fissato all’autunno del 2024, quando il giornale decise di censurare un editoriale di supporto alla candidatura di Kamala Harris: una scelta irrituale che causò le ire degli abbonati.
In pochi giorni, oltre 200.000 persone decisero di cancellare la propria subscription — circa il 10% del totale. Un’emorragia proseguita anche nei mesi successivi, con altre 175.000 cancellazioni.
Il mancato endorsement a Harris è stato un colpo durissimo per chi, nel 2016, aveva riposto nel giornale di Washington le proprie speranze di trovare una voce di senso in un contesto politico che, schiacciato tra alternative facts e post-verità, di senso sembrava averne ben poco.
Il Post aveva persino scelto il claim «Democracy dies in darkness» per sottolineare il proprio antagonismo verso le derive autoritarie dell’affarista-presidente.
La linea editoriale si è annacquata nel corso di questi anni, fino a essere “sconfessata” completamente qualche mese fa: una decisione che in molti hanno vissuto come un vero e proprio tradimento, seguita dalla notizia della ricca donazione milionaria che Bezos ha fatto a Trump in segno di benvenuto per il suo secondo mandato (del doppiogiochismo di certi magnati del tech ne avevo parlato qui).
Fanfare e realtà
A metà dello scorso decennio ci fu persino un (fugace) momento in cui il Washington Post sembrava poter competere con il rivale New York Times su scala nazionale e internazionale.
Nel 2013 il giornale di proprietà di Bezos aveva lanciato il proprio paywall, tra grandi piani di espansione internazionale. Poi nell’ottobre 2015 aveva annunciato uno «storico sorpasso» sul Times nel numero «dei visitatori unici digitali».
Ma quella del traffico è sempre una metrica ingannevole ed effimera. Per capire come sta un giornale è sempre meglio guardare al numero dei suoi abbonati — vero termometro della fiducia che i lettori ripongono in una testata.
E sotto questo aspetto il Post è rimasto indietro: oggi ha 2.1 milioni di abbonati digitali attivi, contro gli 11.4 milioni del New York Times. Non va meglio sulla carta, dove il crollo di lettori è evidente: oggi sono 97.000 le copie medie vendute nei giorni feriali rispetto alle 250.000 di cinque anni fa.
I conti, pure, sono in sofferenza. Dopo anni di attivo, il Post ha perso 100 milioni nel 2023 e oltre 50 nel 2024: cifre spaventose che metterebbero a repentaglio la sopravvivenza di qualsiasi giornale.
Per cambiare le cose, l’unica possibilità è che ora Bezos imponga un cambio di rotta molto deciso, sostituendo le figure chiave della testata con nomi nuovi che portino a un cambio di passo.
Il problema è che tutto questo è già stato fatto non più di un anno e mezzo fa. E le cose, anziché migliorare, sono andate peggiorando.
Il vero declino, più che economico, è editoriale. Il Post è diventato cassa di risonanza dei suoi stakeholder.
Il britannico Will Lewis, ex braccio destro di Murdoch assunto nel 2024 come nuovo CEO dell’azienda, ha portato un approccio diverso, ben lontano dal mantra dell’indipendenza a ogni costo che ha storicamente contraddistinto il giornale di Woodward e Bernstein.
Lewis ha infatti cercato di occultare storie che lo riguardano, soprattutto relative al suo turbolento passato nel giornalismo inglese, e impedito la pubblicazione di diversi contenuti sgraditi al suo padrone: commenti, opinioni, inchieste e persino vignette satiriche.
Lo sa bene l’illustratrice Ann Telnaes, che a gennaio di quest’anno aveva proposto ai suoi editor una vignetta che mostrava alcuni imprenditori delle big tech, tra cui lo stesso Bezos, inginocchiarsi davanti a Trump con una borsa in denaro. La vignetta è stata censurata, portando Telnaes a rassegnare le dimissioni.
Scappi chi può
Il fatto che al Washington Post non si possa più dire nulla - almeno quando riguarda il suo CEO o il suo proprietario - ha causato una crisi interna e una fuga di grandi firme dal giornale: la senior correspondent Ashley Parker, il giornalista d’inchiesta Josh Dawsey, il national editor Philip Rucker, la giornalista politica Jackie Alemany, il Washington Bureau Chief Michael Scherer, il media reporter Will Sommer e i columnist David Shipley e Ruth Marcus (che ha raccontato la sua versione dei fatti).
A giugno 2024 se ne è andata anche la direttrice Sally Buzbee, in aperto contrasto con Lewis, dopo che quest’ultimo le aveva chiesto di censurare alcune storie poco lusinghiere sul suo passato. Dalle porte girevoli è uscita pochi mesi dopo anche Matea Gold, ex managing editor e prima indiziata per rimpiazzare Buzbee.
Secondo l’ex direttore Marty Baron, Jeff Bezos «ha gestito in modo ammirevole il giornale per oltre un decennio. Ma il coraggio gli è venuto meno quando ne aveva più bisogno».
La celebre giornalista Margaret Sullivan ha definito quello del Washington Post «un declino tragico». Un tempo, ricorda Sullivan, Bezos «era molto diverso, teneva testa alle intimidazioni di Trump. Adesso non più. Ora si preoccupa solo dei propri interessi commerciali».
Più che una mancanza di coraggio, infatti, l’inversione di tendenza del Post somiglia a una virata sfrontata: oggi l’obiettivo del giornale non è più la difesa della democrazia americana, quanto piuttosto la protezione degli interessi di alcuni e del potere di altri.
Con buona pace dei giornalisti e giornaliste che ancora ci lavorano, e che credevano alla missione anti-oscurità di un tempo.
Bezos hides in darkness
Nonostante questo apparente interventismo sulle questioni editoriali, il fondatore di Amazon ha smesso di farsi vedere a Washington ormai da anni.
Nella sua prima visita alla redazione nel 2013, pochi giorni dopo l’acquisto, Bezos aveva trovato una situazione tumultuosa. E aveva deciso di metterci la faccia da subito, anche come garante dell’indipendenza giornalistica.
Le sue visite alla redazione sono diventate però «progressivamente meno frequenti», come ha rivelato un insider all’Atlantic. «Riunioni sempre più piccole, sempre più coreografiche. Che poi si sono interrotte». E oggi «Bezos è praticamente scomparso» dalle parti di One Franklin Square.
Nell’apparente indifferenza del suo proprietario, ora il Post si sta ridimensionando — sia in termini di copie vendute, sia in termini di rilevanza. E sta pagando le conseguenze di una disconnessione sempre più marcata tra la missione del giornale e il suo pubblico.
Così, mentre circolano voci che vorrebbero Bezos interessato ad acquistare Vogue come «regalo di nozze» per la neo-moglie Lauren Sanchez, la crisi di identità del Post pare non avere fine. E non si riesce a capire chi abbia le capacità necessarie, o il giusto interesse, per tentare di risolverla.
Alla prossima Ellissi
Valerio
Dieci domande per l’estate ☀️❓☀️
ꜜꜜꜜ
🟡 1. Quale percentuale dei giornalisti americani lavora per il New York Times?
🟡 2. Possiamo capire il costo di un vino in base all’animale disegnato sull’etichetta?
🟡 3. Qual è la domanda più cercata su Google?
🟡 4. Perché nella Colombia rurale l’Alzheimer è così diffuso?
🟡 5. Da dove arrivano i soldi degli ultraricchi?
🟡 6. Quale regina britannica era una “spacciatrice di oppio”?
🟡 7. Quanti satelliti ci sono nello spazio e quanti di questi appartengono a Starlink?
🟡 8. L’intelligenza artificiale può avere paura di perdere una partita a scacchi?
🟡 9. Perché YouTube è piena di trailer finti?
🟡 10. E infine: le verdure hanno una vita sessuale?
Ok, è tutto. Ci risentiamo tra qualche settimana :)
Post interessante su una vicenda appassionante. Ho un dubbio però sulla "metrica di riferimento". Se paragoniamo la testata al NYT, allora è evidente una débacle del Post che innesca una serie di riflessioni e di tentativi di spiegazioni, che passano anche dalla scelta di una certa linea politico editoriale. Se invece il punto di riferimento è l'andamento generale dei giornali, allora il Washington Post fa più o meno quello che hanno fatto gli altri, e l'interpretazione del trend diventa diversa.
Grazie per gli stimoli sempre interessanti. Leggo con interesse e (ovvio) dispiacere, della disgregazione della libertà di stampa. La vicenda del Washington Post mi racconta dell'ennesima messa in atto della strategia del virus che si insinua, infetta e distrugge. Con naturalezza.
Buona estate