Ciao!
Sei sempre su Ellissi, la newsletter che ti accompagna alla scoperta del futuro dei media e delle nuove economie del digitale — scritta sempre da me, Valerio Bassan.
Ci sono ancora un po’ di biglietti disponibili per “Celebrità di Internet e studiosi di meme. Cosa sanno? Sanno cose?? Scopriamolo insieme!”, la follia che ho co-organizzato il 10 maggio a BASE Milano.
Ci saranno con noi Ryan Broderick, Filosofia Coatta, Eterobasiche, Valentina Tanni, Giada Arena, Silvia Dal Dosso, Daniele Zinni (più un superospite a sorpresa). Conduce Viola Stefanello.
Scrivimi se passi!
v.
La viralità sei tu
Il primo libro di Ben Smith, uscito due giorni fa, si intitola Traffic.
“Il traffico web, da un punto di vista tecnico, non è altro che la registrazione del passaggio di un’informazione da computer a computer”, scrive Smith, oggi direttore di Semafor.
“Ma non possiamo derubricare il traffico a una questione meramente meccanica. Come Jonah fu tra i primi a scoprire, il traffico è anche emozione umana, psicologia, desiderio, curiosità, humor”.
Il ‘Jonah’ cui si riferisce Smith è ovviamente Jonah Peretti, fondatore di BuzzFeed e dell’Huffington Post, demiurgo della viralità e suo ex datore di lavoro.
Il libro di Ben Smith racconta di lui e della loro collaborazione, ma è anche la narrazione di un internet che è stato e che non è più: quello in cui una generazione agguerrita di media digitali sognò di poter competere, testa a testa, con i grandi colossi del giornalismo.
Quella fase, infatti, potrebbe essere vicina a finire.
BuzzFeed News, che Smith aveva lanciato e diretto, ha chiuso i battenti la scorsa settimana.
Un altro dei media darling di quel periodo, VICE, è entrato nella sua fase terminale: dopo avere tagliato i suoi uffici europei - incluso quello italiano - si starebbe avviando verso la bancarotta.
C’è dunque un momento migliore per pubblicare un libro con quel titolo lì, che gira intorno a quella parola maledetta - “traffico” - e che negli anni è diventata una metafora di qualcosa che si era rotto nel giornalismo?
Il traffico non è necessariamente un male. I siti dei migliori quotidiani al mondo sono anche quelli più letti — e qualcosa vorrà pur dire.
A volte però si trasforma in un male necessario.
Il problema è che il traffico è un mostro insaziabile. Se hai lavorato in una redazione lo sai: più lo alimenti, più dovrai alimentarlo.
I ‘picchi da record’ in un giornale non sono mai il punto di arrivo; sono soltanto il prossimo punto di partenza. E da questo circolo vizioso è difficile uscire.
Quando dirigevo VICE News Italia, oltre ad avere più capelli e meno barba, ero ossessionato dagli analytics. Li guardavo da mattina a sera.
Era facile cedere all'ambizione di trovare il prossimo The Dress, di gareggiare alla ricerca della formula della viralità perfetta.
A volte sembrava di partecipare a una battuta di caccia: non a caso in inglese si usa l’espressione chasing traffic. Il traffico era qualcosa che andava inseguito, braccato, domato.
A quei tempi c’erano dei modi “scientifici” per fare traffico, e uso la parola scientifico senza nessun layer di ironia — quella robaccia del clickbait in fondo è stata inventata dal cervello di Eli Pariser (sì, proprio lui, il teorico delle filter bubble).
Ma il clickbait si è rivelato essere una trappola: perché pur essendo un’invenzione geniale, era facilissima da replicare.
Così, come tutte le innovazioni con una barriera d'ingresso molto bassa, ha smesso ben presto di essere efficace.
Dove abbiamo sbagliato?
Quella del traffico è solo una metrica. E come tutte le metriche, può essere utilizzata (bene o male) per indirizzare delle scelte.
Rileggendo una vecchia Ellissi, mi sono imbattuto in questa frase, valida ancora oggi:
“La dittatura delle metriche, spesso, ci spinge a misurare solo la cosa più facile da misurare, e non quella che veramente conta; a privilegiare i risultati a breve termine, a discapito della visione di lungo periodo; o ancora ci costringe a standardizzare i processi, riducendo la nostra creatività e la capacità di reagire agli imprevisti”.
Tutto vero. Eppure, anche nei numeri esistono le sfumature. Persino il traffico non è tutto uguale.
Cento pagine viste generate da dieci utenti fedeli possono valere molto più, nell’economia di un editore, di quelle create da cento utenti occasionali.
Allo stesso modo, il traffico diretto a un sito vale ben di più del traffico che arriva da un post su Facebook, per non parlare di un click su un articolo girato su Whatsapp.
Il peccato originale, in fondo, non è mai stato il traffico in sé e per sé.
Il problema è stato piuttosto quello di trasformarlo nella stella polare con cui misurare la qualità dell’informazione digitale.
Senza interrogarsi mai su chi fossero gli esseri umani dietro a tutte quelle pagine viste, i giornali online hanno perso l’occasione di costruire una relazione più forte con le proprie audience, in un periodo in cui internet era più puro e accessibile di quello di oggi.
Come spiega Smith nel libro, inoltre, testate come BuzzFeed hanno compiuto un grave errore, cercando di trasformarsi in generatori di engagement per le piattaforme.
L’idea di Peretti era che creare una content machine, in grado di produrre i contenuti di cui avevano bisogno gli ingranaggi pubblicitari delle Big Tech, fosse un’ottima opportunità di business per tutti.
Ma i social non avevano davvero bisogno dei contenuti di BuzzFeed: su Instagram o YouTube qualsiasi persona poteva pubblicare post, video e foto, e così facendo accumulare traffico e generare engagement. Le liste di BuzzFeed potevano essere replicate da chiunque.
Mentre le piattaforme continuavano a macinare nuovi iscritti e tempi di permanenza da record, testate come BuzzFeed o VICE non sono mai riuscite a convincere le persone a visitare regolarmente le loro homepage, diventando sempre più dipendenti dai click dei social. Una doppia sconfitta.
“Il traffico, alla fine, ha segnato il destino dei media”, ha scritto Jacob Donnelly di Morning Brew nell’ultima puntata di A Media Operator.
Cosa c’entri tu (sì, tu) in questa storia?
Le pubblicità automatizzate di Outbrain e Taboola, che invadono le parti basse dei giornali online, sono mediamente terribili.
Ma la verità è che la gente ci clicca, e che questi click generano un guadagno significativo per gli editori. Che altrimenti non continuerebbero a proporcele.
Questo piccolo spunto ci offre un insegnamento importante: che anche noi, in qualità di lettrici e lettori, non siamo esenti da colpe.
Hai presente il vecchio adagio “tu non sei bloccato nel traffico, tu sei il traffico”?
Ecco. Anche se raramente ce ne accorgiamo, i nostri click hanno delle conseguenze.
Dall’altra parte dello schermo c’è chi guarderà quei numeri e baserà le proprie decisioni editoriali su di essi.
In piccola parte, dunque, anche dalle nostre scelte dipende un po’ del futuro dei giornali.
Ora, l’era del traffico a tutti i costi potrebbe essere alle spalle: quei meccanismi hanno smesso di funzionare tempo fa.
Oggi i giornali non possono esimersi dal costruire una relazione umana, diretta e profonda con i propri i lettori.
Per quel che vale, stavolta cerchiamo di cliccare dalla parte giusta.
Alla prossima Ellissi
Valerio
Nella mia reading list
🟡 Di BuzzFeed e VICE ho parlato anche su Sky.it, ieri.
🟡 Time Magazine ha deciso: basta paywall.
🟡 Un servizio di streaming che offre solo canzoni generate con l’AI.
🟡 E un social network senza esseri umani.
🟡 Che tempo fa su Bluesky, l’ultima avventura di Jack Dorsey.
🟡 In USA nasce un nuovo e ambizioso giornale online, con 200 giornalisti.
🟡 I media sono di fronte a un nuovo “momento Napster”?
🟡 Auguri adorato World Wide Web!
🟡 Umanizzare la complessità dei dati.
🟡 A16z, spiegata bene.
🫡 Se questa Ellissi ti è piaciuta, falla leggere a qualcuno!
A volte dove non c’è traffico, si trovano scorci bellissimi. Nella vita reale e in quella digitale.
Puntata Topperia