Ciao!
Sei su Ellissi, la newsletter che ti accompagna alla scoperta del futuro dei media e delle nuove economie del digitale — scritta da me, Valerio Bassan.
Grazie a Wethod per avere deciso di sponsorizzare questa puntata della newsletter. Qui puoi scoprire un modo migliore per gestire i progetti insieme al tuo team.
Ultima cosa! Se mercoledì 10 maggio sei a Milano, ho organizzato questa bella cosa qui, un po’ fuori di testa 👇
Sul palco di BASE ci saranno Ryan Broderick di
, Silvia dal Dosso (Clusterduck), Filosofia Coatta, Eterobasiche, Valentina Tanni, Giada Arena, Daniele Zinni (Inchiestagram) e Viola Stefanello (Il Post).Se vuoi, il biglietto si prende qui!
E buona lettura,
v.
Non è proprio il caso 🙅♂️
“Perché sono diventato virale su Substack?”
No, non me lo sto chiedendo io. Magari!
A domandarselo è stato invece Noah Berlatsky, un giornalista freelance di Chicago.
La sua risposta è piuttosto onesta e diretta: “Non ne ho la più pallida idea”.
Come Noah anche noi - utenti di internet - potremmo porci, tutti i giorni o quasi, una domanda simile.
Perché un post diventa virale?
Perché nei nostri scroll finiscono determinati contenuti e non altri?
Perché l’algoritmo ci propone proprio quei reel, tweet, video o brani musicali?
Il rabbit hole del consumo dei media digitali e i meccanismi della viralità sono governati da logiche invisibili ai nostri occhi.
Gli algoritmi sono, per noi, delle scatole nere.
Un amico che produce podcast, mi ha confessato recentemente, fatica a capire quali siano i parametri che governano le classifiche delle piattaforme, da cui dipende gran parte del suo successo professionale.
Questo “sapere di non sapere” ci dà la sensazione di non essere in controllo delle nostre esperienze su internet — un po’ come se ci stessimo affidando al caso. Come se non ci fosse una logica.
Ed è in parte vero: il “caso”, quella che in inglese chiamano randomness, è infatti una componente essenziale della nostra relazione con i contenuti digitali.
Fin dai tempi dell’introduzione del tasto shuffle, che ci diede la capacità di fruire in modo non lineare di una serie di brani, il caso è stato un fattore di grande innovazione nell’esperienza digitale delle persone.
Ma lo shuffle è in grado di produrre una vera randomness?
No, certo.
Quella degli algoritmi è una “randomness guidata”, costruita per darci l’impressione della serendipity tecnologica, ma senza essere davvero in grado di crearla.
Le nostre shuffle experience quotidiane, come quelle offerte dai For You dei social, non sono mai percorsi casuali, quanto piuttosto tante versioni solo leggermente difformi della stessa esperienza, costruite su logiche commerciali precise.
E qui arriviamo al punto.
Il caso perfetto, inteso come la totale assenza di pattern predefiniti e predeterminati, non è riproducibile in tecnologia: i sistemi informatici sono intrinsecamente deterministici, e sono stati programmati per esserlo.
È per questo che le aziende che si occupano di cybersicurezza devono inventare sistemi ibridi per assicurare ai propri clienti maggiore protezione dagli attacchi informatici: più entropia c’è in una chiave crittografata, minore è la possibilità che un hacker riesca a decifrarla.
La multinazionale Cloudflare, per generare un livello di casualità il più vicino possibile alla perfezione, ha ideato un sistema basato sull’uso di decine di coloratissime lampade di lava (giuro!).
E quindi?
E quindi, il caso è un fattore importante.
È il presupposto verso un’esperienza digitale più genuina, basata sulla scoperta.
All’inizio il web era così. Poi, le piattaforme invece trasformano la casualità in un set di regole ben definite e poco trasparenti.
Il loro obiettivo è quello di farci sentire unici a modo nostro, mentre in realtà ci rendono tutti più omologati.
E alla fine ci ritroviamo con meno casualità, ma anche meno controllo: paradossale, no?
Per questo, oltre a chiedere una maggiore trasparenza alle black box dei social, vorrei un po’ di randomness in più su internet.
Un internet più casuale e meno predeterminato, infatti, è un internet più libero.
Alla prossima Ellissi
Valerio
PS. Nel 2018, a Barcellona, partecipai a una conferenza organizzata da IAM, un’associazione spagnola. Il loro slogan, stampato sulle borse e sulle magliette distribuite all’evento, era molto bello: “In Randomness We Trust”.
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Nella mia reading list
🟡 Quando le personas diventano prigioni.
🟡 Cosa è successo a National Geographic?
🟡 Il meta-content sta rovinando internet?
🟡 Cosa vede una webcam dei movimenti della tua mano?
🟡 Quando l’AI inventa articoli (e firme) che non esistono.
🟡 Project Oasis censisce le realtà digital media indipendenti d’Europa.
🟡 Il problema degli yacht per le balene.
🟡 Perdere la faccia.
🫡 Se questa Ellissi ti è piaciuta, falla leggere a qualcuno!
Essendo ormai i Social diventati più uno strumento di business che di divulgazione dei propri patemi d'animo/contenuti di valore, purtroppo diventa utopistico liberarci dall'essere indirizzati. Mi piacerebbe ci fosse un tasto "antidoping", che depotenzi i post da ads e tutte le tecniche di engagement dell'attenzione. E che quest'ultima diventi l'unico driver di scelta del contenuto da leggere. Lo so, sono un inguaribile romantico. Tonerò a leggere la mia newsletter che, ancora, non è entrata nel tunnel. E, infatti, la leggo solo io : )