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Il grande ritorno della Domanda
Perché il nuovo internet conversazionale potrebbe renderci migliori.
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Buona lettura,
v.
Il grande ritorno della Domanda
Nel giornalismo c'è un vecchio adagio che recita:
“Quando il titolo di un articolo finisce con un punto interrogativo, la risposta alla domanda è sempre NO.”
Conosciuta come la legge dei titoli di Betteridge, dal cognome del giornalista inglese che la coniò nel 2009, questa regola è in realtà molto più antica, e gira da decenni nelle redazioni.
Il senso è questo: se chi scrive un articolo è sicuro della veridicità di ciò che racconta, allora gli basterebbe affermare quel fatto, no?
Presentare una notizia in forma di domanda, invece, sottende che l’autore, o l’autrice, non siano stati in grado di verificarla al 100%.
Questa ‘regola da redazione’ mi è sempre piaciuta, perché costringe noi giornalisti a un’assunzione di responsabilità.
Il giornalismo, del resto, è un mestiere fatto di domande — i punti interrogativi sono anche i punti di partenza nel percorso di ricerca della verità, la miccia di ogni storia.
È un approccio, peraltro, profondamente umano. Sin dall’inizio dell’Olocene, infatti, la spinta a interrogarsi è stata la linfa vitale della nostra curiosità.
Basti pensare a come sono nate tutte le invenzioni più importanti: dalla ruota a internet, la strada per la conoscenza è lastricata di domande.
Internet categorico
Una volta, su internet, le domande erano più in voga.
Penso soprattutto ai forum, alle chat e ai social network, che fin dalla loro nascita ci hanno sempre chiesto qualcosa.
Dal “What do you want to share?” di MySpace, al “What’s on your mind?” di Facebook, fino al “What’s happening?” di Twitter.
Con il passare del tempo, però, le call to action delle piattaforme sono diventate sempre più simili a imperativi: “Condividi”, “Commenta”, “Carica”, “Metti mi piace”.
Anche i motori di ricerca in questi anni ci hanno disabituati a fare domande.
Il loro obiettivo è diventato anzi quello di ‘bypassare’ la necessità stessa di chiedere: basta un nostro input grezzo, per tutto il resto ci sono i dati e gli algoritmi.
Come disse una volta Eric Schmidt, parlando della sua Google, we should know what you meant.
La capacità predittiva delle piattaforme ha tolto spazio alla formula interrogativa.
“Quali sono le migliori piste da sci del Trentino?” è diventato “piste sci Trentino”.
“Quanti anni ha Isabel Allende” è diventato “Isabel Allende età”.
“Che tempo farà oggi a Napoli?”, invece, “Napoli meteo oggi”.
Questo processo ha reso più assertivo il nostro rapporto con la tecnologia (“Alexa, metti Spotify”), abituandoci più a dare ordini che a chiedere.
Algoritmi ed e-commerce, in fondo, sanno già cosa vogliamo: le loro interfacce sono costruite per interpretare i segnali, non per ascoltarci davvero.
Non più il cosa, ma il come e il perché
Fare domande ci espone a dei rischi. Non farle, al contrario, è un meccanismo istintivo di protezione.
Come scrisse Amanda Palmer nel suo The Art of Asking, “non è tanto l'atto di chiedere che ci paralizza, ma quello che c'è sotto: la paura di essere vulnerabili, la paura del rifiuto, la paura di sembrare bisognosi o deboli, la paura di essere visti come un peso per la comunità”.
Per tutte queste ragioni, l’ascesa delle AI conversazionali può rappresentare un ritorno al passato quanto mai positivo.
Rispetto agli altri servizi, infatti, le AI non sanno cosa vogliamo, almeno finché non le interroghiamo.
Le loro interfacce a chat ci 'costringono' a formulare il nostro pensiero sotto forma di domanda, e quindi a organizzare diversamente i nostri pensieri, a ragionare in profondità non solo su quale informazione vogliamo ottenere, ma sul perché la stiamo cercando.
Del resto, la qualità del prompt di partenza è fondamentale.
Fare domande ragionate può dunque stimolare maggiormente la nostra curiosità e la nostra creatività, aiutandoci a rinunciare agli imperativi e - forse - a farci tornare più umili.
Mi chiedo, in conclusione: l’internet dialogico del futuro sarà meglio dell’internet categorico di oggi?
Ho paura che, almeno stando alla regola di Betteridge, la risposta potrebbe essere no.
Ma ho fiducia: ogni tanto, infatti, anche le leggi sbagliano.
Alla prossima Ellissi
Valerio
Nella mia reading list
🟡 Come il bottone shuffle ci ha cambiati.
🟡 Sulla morte del creatore della Legge di Moore.
🟡 La macchina della verità che capisce quando l’AI sta mentendo.
🟡 Di quella storia dell’oggettività nel giornalismo.
🟡 C’è un processo etico dietro alla costruzione di un ponte.
🟡 Fatti un selfie un po’ distopico.
🟡 Il reporter portoghese con una storia diversa dalle altre.
🟡 Saranno i “preferendum” a salvare le democrazie?
🟡 Cosa vuol dire essere cronicamente online.
🟡 Storia e critica dei deepfake.
🟡 Resistere all'inevitabile.
🫡 Se questa Ellissi ti è piaciuta, falla viaggiare nel mondo!