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Questa è Ellissi, la newsletter che ti accompagna alla scoperta del futuro dei media e delle nuove economie del digitale.
Io sono Valerio Bassan e mi occupo di sviluppare strategie digitali e di business per media company e aziende insieme allo studio che ho fondato, Supercerchio.
Oggi parliamo, in un certo senso, di archeologia: deserti, crolli e sepolture. Buona lettura.
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Il futuro non è inevitabile
La cittadina di Alamogordo, nel New Mexico, non è rinomata per la sua bellezza.
Il panorama, lungo la statale 54 che la attraversa, è un susseguirsi di case basse e parcheggi coperti da un sottile strato di sabbia.
Un flusso interrotto ogni tanto da un parco giochi, un Walmart o una stazione di benzina.
Ma ci sono almeno due ragioni che hanno fatto entrare Alamogordo nella storia, sebbene nessuna delle due sia particolarmente lusinghiera.
La prima è l’avere ospitato nel 1945 Trinity, il primo test nucleare, la prova generale della bomba che due settimane dopo avrebbe devastato Nagasaki.
La seconda è quella di essere stata il luogo di sepoltura, nel 1983, di centinaia di migliaia di cartucce di videogiochi.
Sì, hai letto bene: cartucce di videogiochi. Cartucce che sono state interrate di nascosto nel deserto, e che lì sono rimaste per oltre trent’anni.
Ma cosa è successo quarant’anni fa ad Alamogordo?
Per capire questa storia dobbiamo citofonare ad Atari, la società americana che in quel periodo è leader nel settore dei videogiochi e della produzione di consolle.
Grazie al lavoro di Atari, negli anni Settanta, celebri titoli arcade come Asteroids e Space Invaders entrano nei salotti di milioni di famiglie americane.
Nel 1982 il futuro per l’azienda appare radioso: i bilanci sorridono e i competitor sembrano indietro anni luce.
Ma è proprio questo eccesso di fiducia a portare i suoi manager verso una serie di scelte sbagliate.
La prima è legata al lancio di PacMan.
Durante la fase di produzione, Atari decide di stampare 12 milioni di copie del nuovo gioco — più delle consolle su cui PacMan poteva essere utilizzato, ferme a 10 milioni.
La speranza, infatti, è quella che il titolo possa divenire così popolare da trainare la vendita di nuove Atari 2600.
PacMan vende bene, ma non basta: ben 5 milioni di cartucce restano nei magazzini dell’azienda e sugli scaffali dei negozi.
La seconda mossa disastrosa vede invece protagonista ET - L’Extraterrestre, il film di Spielberg che nella primavera di quell’anno frantuma ogni record al botteghino.
La Atari compra a caro prezzo i diritti per trasformare la pellicola in videogioco e cerca di velocizzarne al massimo la produzione, sperando di portare il titolo nei negozi entro Natale.
ET esce in tempo, ma è un flop totale.
Brutto, ingiocabile, senza una narrazione convincente: ancora oggi viene definito come “il peggior videogame della storia”. Le recensioni degli esperti sentenzieranno caustiche: “La schermata più bella è quella iniziale”.
Una notte da struzzi
Le conseguenze per l’azienda sono drammatiche. L’anno successivo Atari perde oltre 530 milioni di dollari, un tracollo che porta allo smembramento della società e alla sua cessione.
I negozianti, infuriati dalle pratiche commerciali del gruppo, decidono di svendere i suoi titoli (proponendo sconti che arrivano fino al 90%) e chiedono al contempo alla società di coprire i costi di smaltimento di migliaia di cartucce invendute.
È in questa situazione che Atari prende una decisione drastica: una notte, 12 camion arrivano in un terreno incolto vicino ad Alamogordo e seppelliscono oltre 790.000 tra cartucce di videogiochi e consolle invendute, ricoprendole poi con uno strato di cemento.
Dell’avvenimento parlano i quotidiani locali per qualche giorno, salvo poi sparire rapidamente dai radar.
Passano i decenni, e quella “sepoltura” si trasforma in una leggenda urbana di cui si perdono le tracce.
Fino al 2014, quando gli autori di un documentario - intitolato Atari: Game Over - decidono di indagare sulla vicenda. E cominciano a scavare.
Dopo qualche ora, la verità torna a galla: migliaia di cartucce e componenti elettroniche smaltite illegalmente riemergono dalle sabbie del New Mexico.
L’episodio dell’Atari Video Game Burial, più che raccontare il declino di una singola azienda, è la testimonianza di un momento di passaggio.
Il 1983 è infatti l’anno del cosiddetto video game crash, un crollo che segna l’inizio di un periodo di profondissima recessione per l’intero mercato dei videogiochi.
Se quell’anno il settore genera 3,2 miliardi di dollari, due anni dopo, nel 1985, fatturerà appena 100 milioni: una perdita mostruosa, con punte del 97%.
A causare il brusco stop contribuisce la concorrenza degli home computer, sempre più popolari — in particolare del Commodore 64 e delle sue aggressive politiche di prezzo.
È l’inizio di un periodo di stagnazione che terminerà solo con l’arrivo sul mercato americano, alcuni anni più tardi, della terza generazione di consolle, quelle giapponesi prodotte da Sega e Nintendo.
Eccesso di ottimismo
Come in tutti i grandi crash, anche quello dei videogiochi arrivò al termine di un periodo d’oro, che aveva dato l’illusione di una crescita quasi scontata e percepita come “inevitabile”.
Le sue dinamiche ricordano da vicino quello che sta avvenendo in queste settimane, con le tech stock al collasso e un’ondata di licenziamenti senza precedenti.
Il crollo di capitalizzazione del comparto (3 trilioni persi in un anno) e i tagli al personale effettuati da Meta, Amazon e presto forse anche da Google hanno spinto gli osservatori a parlare di una nuova bolla delle dotcom.
L’andamento in effetti è simile a quello che abbiamo già vissuto nel 1983 e nel 2000: anni di sfrenati investimenti, di grafici che puntano verso l’alto e di ricchi dividendi hanno generato un incauto ottimismo.
Stavolta ci si è messa di mezzo anche la pandemia, che per la tecnologia è stato un fattore di traino.
Durante il covid infatti il mondo si è rapidamente spostato online, mentre l'impennata dell'e-commerce ha portato a una crescita dei profitti fuori misura.
Ma chi ha basato su quei dati le proprie strategie, cadendo nella trappola dell’eccesso di ottimismo, ora ne sta pagando le conseguenze.
Anche Mark Zuckerberg, nel memo inviato ai propri dipendenti per annunciare i licenziamenti, ha ammesso le sue colpe.
“Molti prevedevano che l’accelerazione permanente sarebbe continuata anche dopo la fine della pandemia. Anch'io l'ho pensato, e ho deciso di aumentare in modo significativo i nostri investimenti. Purtroppo le cose non sono andate come mi aspettavo. […] Ho sbagliato e me ne assumo la responsabilità.”
Meta mi ricorda per certi versi Atari nel 1982.
Dopo avere investito 10 miliardi nella commercializzazione di un videogioco costoso e al momento piuttosto ingiocabile - il metaverso - ne sta pagando le conseguenze.
Il rischio concreto è che il metaverso possa diventare “l’ET di Meta”, causando un buco all’azienda che sarà difficile da colmare — anche se per scoprirlo dovremo aspettare qualche anno.
Allo stesso modo, solo il tempo potrà dirci quali saranno gli effetti di questo tech crash e se, come nel 1983 e nel 2000, dal caos possa emergere una nuova generazione di piattaforme e di vincitori.
Nel frattempo, i manager e le manager della Silicon Valley dovrebbero imparare che innamorarsi troppo di un trend, affidandovi ciecamente la propria strategia, può essere un pericolo.
Fossi in loro appenderei un foglio al muro dell’ufficio, scrivendoci sopra queste parole:
“Il futuro non è inevitabile”.
Nulla infatti ci garantisce che il mondo di domani si evolva in modo identico a quello di ieri.
Possiamo usare il passato come uno strumento per immaginare il futuro, certo, ma anche per non ripetere gli stessi sbagli.
Senza contare che oggi, rispetto a quarant’anni fa, è molto più difficile seppellire i propri errori sotto la sabbia.
Alla prossima Ellissi
Valerio
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