Ciao, sei su Ellissi, la newsletter che ti accompagna alla scoperta del futuro dei media e delle nuove economie del digitale.
Io sono Valerio Bassan e mi occupo di sviluppare strategie digitali e business per media company e aziende insieme allo studio che ho fondato, Supercerchio.
Se non è la tua prima volta da queste parti, noterai qualcosa di diverso. E infatti devo annunciarti un paio di novità.
La principale è che la newsletter ha cambiato casa. Da oggi infatti mi trovi su Substack.
La seconda è che, a partire da oggi, Ellissi ti arriverà con cadenza quindicinale.
Ho preso questa decisione perché il tempo che dedico alla scrittura sarà occupato, nei prossimi mesi, anche da nuovi progetti che avranno bisogno a loro volta di cura e attenzioni.
Ma è anche un modo per provare a fare meno e farlo meglio: diluire il tempo di lavorazione della newsletter mi permetterà - spero - di far germogliare più a lungo i pensieri e sedimentare più a fondo le idee.
Che ne pensi? Aspetto tue.
Intanto, ho anche un’altra (bella) news: nei giorni scorsi è uscita la nuova puntata di Una cosa al volo, il podcast di Team Lewis Italia dedicato alla comunicazione e al digital marketing che cambiano “alla velocità della luce”.
Con loro ho parlato di newsletter, di giornalismo e dell'importanza di coltivare una relazione con le proprie community.
Puoi ascoltare la puntata su tutte le piattaforme audio (qui trovi il link a Spotify) oppure guardarla su YouTube. Grazie per l’ospitalità!
Buona lettura!
Valerio
Se invece è la tua prima volta, puoi iscriverti a Ellissi qui:
Cultura Digitale Demotivazionale
Ti ricordi ancora i demotivational?
Ma sì, dai: quelle composizioni di immagini e testo che prendevano in giro la cultura aziendalista americana e che, alla fine degli anni Novanta, giravano ovunque su forum e chat.
Ecco, tipo questo e questo (o questo, che è il mio preferito).
Benché nati come progetto di un’azienda privata, i demotivational furono uno dei primi meme a diffondersi su larga scala e a diventare un fenomeno culturale di massa.
Migliaia di persone, ai tempi, si cimentarono nella produzione digitale della loro versione dei “poster demotivazionali”, generando mutazioni basate su un linguaggio condiviso — e dando vita a un grande esperimento creativo e, in buona parte, collaborativo.
Questo tipo di processo creativo è per me una delle delle meraviglie del Web, che fin dalla sua nascita ci ha permesso di produrre oggetti culturali spacchettando e riassemblando “pezzi” generati da altri.
Del resto, l’idea che la produzione culturale online debba essere libera di diffondersi, trasformarsi e generare nuove idee - quella che nel 2000 lo statunitense Lawrence Lessig definì remix culture - è alla base della rete stessa.
Umani in servizio
A partire dal 2004, con l’avvento di piattaforme come YouTube e di Facebook, le dinamiche di questa creatività sono però profondamente cambiate: quella che prima era una spinta dal basso scevra da interessi economici è diventata un asset commerciale.
Sulle “piattaforme”, infatti, nessuno può più considerarsi spettatore passivo della filiera culturale: tutte le nostre attività social – persino un like o uno swipe – sono alimento pregiato per gli ingranaggi dativori delle big tech e influenzano, in un modo o nell’altro, la diffusione della cosiddetta “cultura”.
Se da un lato i social ci hanno regalato nuovi strumenti e allargato la platea di produttori/consumatori, è innegabile che dall’altro abbiano contribuito a una standardizzazione della produzione - codificando idee e linguaggi del content - il cui ruolo primario è quello di alimentare modelli di business profondamente sbilanciati verso i detentori dell’infrastruttura.
Bisogna ricordarsi che se le piattaforme cercano continuamente di stimolarci a produrre contenuti, infatti, lo fanno per sfruttare i nostri dati e le nostre azioni: utilizzano una bilancia che pende inevitabilmente non verso i nostri bisogni, ma verso quelli degli inserzionisti.
È un problema, certo: anche perché questo sbilanciamento spinge noi produttori culturali a creare consapevolmente per gli algoritmi, trasformandoci in molti casi in humans as a service - umani al servizio di un’economia che ci mette in competizione gli uni contro gli altri.
Per questo, nonostante le piattaforme si definiscano come forze democratizzanti e si posizionino più come gate-opener che come gate-keeper, e non vogliano essere considerate “editori”, il loro ruolo di filtraggio esiste eccome — e influenza direttamente tutta la produzione, quella digitale come quella analogica.
Verso nuove filiere
Quando, nel 2014, il dizionario americano Merriam-Webster scelse proprio culture come parola dell’anno, ci vide lungo: perché contribuì a mettere al centro la discussione su cosa sia o non sia “cultura” nel digitale.
È chiaro che il termine cultura, anche su internet e nelle sue community, non indichi più soltanto il patrimonio delle conoscenze che formano l’individuo sul piano intellettuale e morale, ma tutti quei set di comportamenti e codici condivisi che utilizziamo per rapportarci alla realtà, e che ci definiscono in base alle nostre azioni digitali.
Quando parliamo di meme culture, di crypto culture, di online culture, di cancel culture, identifichiamo sempre di più delle tendenze che raggruppano le persone attorno a specifici processi produttivi e generativi — del discorso pubblico o dell’oggetto digitale. Anche i Demotivational, nel loro mescolare identità, layer ironici e profitti, erano cultura e produzione allo stesso tempo.
Ma se i codici della produzione culturale diventano essi stessi i termini-valori entro cui si definisce una cultura, non rischiamo che la cultura stessa si appiattisca e diventi sempre più una cultura della produzione? Io credo di sì, e senz’altro le piattaforme hanno avuto un ruolo anche nell’accentuare questo fenomeno.
D’altro canto, oggi, noto sempre meno distinzione tra produzione e diffusione dell’oggetto culturale digitale: sembra che una cosa non possa più esistere senza l’altra. Nei media nessuna esperienza esiste e prospera in un vuoto ed è anche per questo che online, spesso, il formato diventa il messaggio.
Ecco, forse la nostra sfida di domani non sta soltanto nel cercare lo scontro con le corporation che detengono il potere, quanto piuttosto quello di trovare delle alternative: nuovi spazi creativi con regole meno verticistiche e bilance più eque, che siano capaci di garantire una filiera migliore per utenti, produttori culturali e creator.
Al netto del rumore, la conversazione sul web3 sta avendo il merito di rimettere al centro del dibattito l’idea di un web in cui le persone possano diventare “azioniste” nella creazione e nella distribuzione del contenuto, e in cui i nostri bisogni si allineino progressivamente a quelli di chi ci fornirà la tecnologia (Substack, ti tengo d’occhio).
Questo processo, tuttavia, dovrebbe avvenire partendo dall’assunto fondamentale che la cultura le culture digitali - anche quelle che non ci piacciono - siano patrimonio di tutti.
In quanto tali dovrebbero essere libere di svilupparsi e diffondersi senza restrizioni, con la garanzia che chiunque vi partecipi andrebbe, se lo desidera, ricompensato. È una svolta che farebbe bene a noi — e credo anche alle piattaforme.
Alla prossima Ellissi
Valerio
PS. La newsletter di oggi è una rielaborazione della prefazione che ho scritto al libro “Piattaforme digitali e produzione culturale” di Thomas Poell, David B. Nieborg e Brooke Erin Duffy, pubblicato nei giorni scorsi da Minimum Fax.
Per me è una lettura necessaria per capire a fondo come i modelli di business del digitale influenzino i tempi che stiamo vivendo. Se vuoi, puoi leggere la prefazione completa qui; grazie a Luca Barra e a tutto il team della casa editrice per avermi coinvolto.
Nella mia reading list
🟡 Quali oggetti del passato sono stati “uccisi” dai millennial?
🟡 Meta licenzia, Lyft licenzia, Stripe licenzia, Apple e Amazon hanno messo in pausa le assunzioni. Siamo entrati nella seconda bolla delle dotcom?
🟡 Chi sta beneficiando della telenovela Musk-Twitter? Be’, Mastodon.
🟡 Uno sguardo su cosa ci aspetta nel mondo post-climate change: questo longform illustrato è una delle cose migliori che ho letto ultimamente.
🟡 A proposito di inquinamento e clima in tempi di COP27: ecco le emissioni paese per paese.
🟡 Spunti (interessanti) sul concetto di “giornalismo civile”.
🟡 La community degli anime in Giappone non sembra gradire particolarmente i software grafici con l’intelligenza artificiale.
🟡 La dura vita degli influencer di #vanlife.
Nella mia to-do list
🟡 Mercoledì 16 sarò allo IAB Forum per tenere un workshop a tema newsletter insieme agli amici di Passendo. Tutti i dettagli qui.
🟡 A Milano è cominciata la Digital Week. Tra i tanti appuntamenti interessanti ci sono questo sul metaverso, questo sul ruolo dei dati nelle politiche pubbliche e questo sul capitalismo delle piattaforme.
Ed è tutto per oggi. Ci sentiamo tra due settimane!
Una delle poche newsletter, Valerio, che leggo con avidità. La scelta quindicinale mi pare ragionevole, seguendo la tua riflessione. Sono contento che hai deciso di trasferirti su Substack, ho fatto la medesima scelta nell'aprile scorso con la mia Booksletter e mi trovo molto bene. Grazie per tutti i tuoi spunti che ci lasci. Buon fine settimana!
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