Autostrade a dieci corsie
Da Zeteo a Mamdani, una nuova strategia comunicativa potrebbe ribaltare le sorti dei democratici americani.
Ciao!
Oggi su Ellissi vi racconto di una mia idea sbagliata e di come una teoria sugli ingorghi stradali potrebbe essere utile ai democratici statunitensi.
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Valerio
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Autostrade a dieci corsie
Sono cresciuto in un paese della Brianza, a circa venti chilometri da Milano.
Per raggiungere la città in automobile percorrevo quasi ogni giorno una superstrada a quattro corsie: la Milano-Meda, un serpentone d’asfalto che collega il capoluogo a una dozzina di paesi del cosiddetto “hinterland” meneghino — in totale, quasi 275mila abitanti.
Ogni mattina, oggi come allora, la Milano-Meda diventa impraticabile: quasi cinquemila automobili si muovono verso la città, creando inevitabili ingorghi. E nel pomeriggio succede la stessa cosa, in direzione opposta.
Il tempo di percorrenza - di circa 20 minuti quando non c’è traffico - può diventare di un’ora o anche più, con ovvi disagi. Per non parlare di cosa succede quando c’è un tamponamento.
Così, in passato, mi ritrovavo spesso a chiedermi se non ci fosse una soluzione al problema.
La cosa giusta da fare, pensavo, sarebbe stata quella di aggiungere una corsia per senso di marcia: con più spazio a loro disposizione, le macchine sarebbero riuscite a procedere più velocemente, no?
Mi pareva ovvio. Avremmo avuto meno rallentamenti, permettendo a tutti di arrivare prima a destinazione. Allargare. Fare spazio.
Poi nel tempo - invecchiando, informandomi, vivendo all’estero - ho sviluppato un’idea piuttosto diversa su come i trasporti dovrebbero funzionare fuori e dentro i grandi centri urbani (spoiler: con meno auto possibili!), ma soprattutto ho scoperto una teoria che non conoscevo, e che smentiva la mia convinzione: quella della “induzione della domanda”.
In soldoni, secondo questa teoria, aggiungere corsie a strade molto trafficate non serve a nulla — anzi, peggiora la situazione. Perché è l’esistenza delle strade stesse a generare traffico, a prescindere dalle loro dimensioni.
Quando si decide di aumentare lo spazio per le automobili, in pratica, si induce più domanda: con arterie più grandi, più persone scelgono di utilizzare la macchina per spostarsi, aumentando così proporzionalmente il volume di mezzi e il rischio di ingorghi.
L’idea di applicare modelli esistenti (più strade! più corsie!) a problemi vecchi, insomma, non funziona.
Quando si cerca di risolvere un problema seguendo il mantra del more of the same, fare di più della stessa cosa, non cambiamo di una virgola la situazione.
Questo principio, come ho capito nel tempo, si applica anche negli ambiti in cui mi muovo: i media, il giornalismo, la comunicazione.
I democratici sono rimasti bloccati
Negli ultimi anni, i democratici americani hanno cercato di applicare alla propria strategia comunicativa il more of the same: hanno cavalcato in larga parte gli stessi canali media di sempre — i grandi giornali, gli spot broadcast, i dibattiti televisivi.
Ci sono state alcune eccezioni - AOC, Brat Kamala - che però, pur raccogliendo un discreto successo, sono rimaste troppo isolate, senza seguito, malviste dall’ala più tradizionalista del partito.
A fare più rumore è stata la mancata partecipazione di Harris al The Joe Rogan Experience — saltata, secondo quest’ultimo, per le eccessive richieste avanzate dall’ex vicepresidente.
Così, mentre Trump si concedeva un’intervista di 3 ore al podcast più ascoltato al mondo, la candidata democratica si arroccava su negoziazioni di potere da “vecchia scuola”, perdendo una grande opportunità di arrivare agli elettori.
Storicamente, nel post-Obama, i dem hanno pensato di ottenere la presidenza più per merito che per media, convinti che le loro argomentazioni (e il solo fatto di essere l’alternativa a Trump) sarebbero stati sufficienti a ottenere i voti necessari.
Come ha scritto The Hill il columnist Andy Hoare, il partito così «ha mostrato una crescente avversione alle forme creative di coinvolgimento sui media, ripiegando su approcci standard e passivi che non riescono a distinguersi dal rumore di fondo».
Ma, come dicono negli Stati Uniti, il futuro non può entrare nelle scatole del passato. E come sia andata a finire lo sappiamo fin troppo bene.
Anche l’ultimo Digital News Report sottolinea come i video dei news influencer e i podcast con i “superhost” giochino «un ruolo sempre più significativo nel plasmare i dibattiti pubblici».
Secondo il sondaggio, un quinto degli americani ha ascoltato Joe Rogan nelle settimane più calde del dibattito elettorale, «tra cui un numero sproporzionato di giovani uomini».
Questo trend è forte negli USA, ma anche altrove: in Francia Hugo Travers (HugoDécrypte) «raggiunge il 22% degli under 35» del paese su YouTube e TikTok; e lo stesso fenomeno si sta allargando a mercati diversi come quelli asiatici, in particolare in Tailandia.
Lo ha capito, da tempo, la destra nordamericana. In questi anni i repubblicani hanno sviluppato un’infosfera moderna - fatta di una costellazione di news influencer che si muove al di là delle compagini dei media tradizionali, con poche regole e un contatto diretto con la pancia di un pubblico “dimenticato” dalle testate d’informazione storiche.
E se è vero che i social stanno prendendo le distanze dai contenuti di questo politici (penso a Meta e alla sua decisione di de-prioritizzarli), le persone cercano altrove la propria dose di informazione politica: sui podcast e sulle piattaforme video, appunto, ma anche sulle newsletter.
Substack è l’agorà del 2025
Forse però, a furia di batoste elettorali, i democratici stanno imparando la lezione. Allargare la strada non basta, serve cambiare radicalmente il modo in cui si comunica.
Un esempio arriva dall’ala più socialista dell’informazione statunitense di sinistra.
E in particolare da una testata, di cui fareste bene a segnarvi il nome: Zeteo.
Zeteo vive su Substack, ma non è solo una newsletter. Propone video interviste, dirette, podcast e articoli di approfondimento spalmati su varie sezioni. Parla di povertà e working class, di diritti umani nel mondo, di cambiamento climatico.
Lanciata nel 2024 con una redazione piuttosto leggera (una decina di persone) e un linguaggio che si pone come “senza filtri” e antagonista rispetto al potere costituito, ha il suo fulcro nevralgico in Mehdi Hasan, il carismatico fondatore.
Giornalista e volto del sito, 45 anni, Hasan ha un passato nell’establishment dei media: ha creato la sua popolarità su MSNBC, dove conduceva il proprio talk show settimanale.
È proprio la sua carriera - e un fitto network di contatti - ad avergli permesso di aprire le porte di Zeteo a tante firme del progressismo democratico, tra cui John Harwood (ex CNN), Taylor Lorenz (ex Wahsington Post), Francesca Fiorentini (ex VOX), lo scrittore Viet Thanh Nguyen e Naomi Klein.
Zeteo ha un approccio molto simile a quello dell’infosfera di destra: non è un media di partito, ma cavalca numerose delle battaglie dem utilizzando un linguaggio più popolare a quello tradizionale dei blu.
I risultati sono ottimi: la testata ha già 1 milione di iscritti al proprio canale YouTube, diverse decine di migliaia di abbonati a pagamento, in un flusso costante di clip virali sui social.
In una di queste vediamo il 33enne Zohran Mamdani, fresco candidato sindaco di New York, in conversazione con Hasan: entrambi di religione musulmana, con radici famigliari migratorie, sono loro i volti nuovi di questa rivoluzione comunicativa dei democratici.
Nella clip, il direttore di Zeteo chiede a Mamdani se accoglierebbe con piacere il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu in città.
Il politico risponde secco: «No. Se fossi io il sindaco, New York City arresterebbe Netanyahu. I valori della nostra città sono in linea con quelli del diritto internazionale. È ora che anche le nostre azioni lo siano». Il segmento, come potete immaginare, è stato visto da milioni di persone.
Mamdani, 33enne di origine ugandese, già membro della giunta cittadina ma sconosciuto al grande pubblico, in pochi mesi ha sconfitto tutti i suoi rivali alle primarie grazie a una campagna incentrata sulla riduzione del costo della vita in città, proponendo misure come il congelamento degli affitti, autobus urbani gratuiti e negozi di quartiere che vendono prodotti a prezzi calmierati.
A colpire è stato il suo stile comunicativo: sorridente, terra-terra, spontaneo.
I suoi video riescono quasi sempre a diventare virali. Merito anche di scelte inusuali per il canonico stile ingessato dei dem — nei reel parla in spagnolo e bengalese, imita i grandi musical bollywoodiani, utilizza colori desaturati e caldi per risultare più empatico.
Alla fine dell’autostrada
Potrà Zeteo, con il suo parterre di grandi firme e il suo approccio adversarial verso i media tradizionali, contribuire a raggiungere un pubblico di sinistra che non si rispecchia più nei giornali e nelle tv?
Riuscirà Mamdani a replicare l’effetto sorpresa delle primarie anche alle elezioni di novembre, spingendo i colleghi di partito a uscire dalle loro zone di comfort?
Lo vedremo. Si tratta, a tutti gli effetti, di due grandi scommesse.
Un dato di fatto è però che i dem stanno cambiando: più che per un disegno strategico coeso, per una serie di iniziative sparse di cani sciolti stufi di vedere la destra fagocitare gli spazi dell’infosfera come negli ultimi anni.
E per noi che lavoriamo nei media, nella comunicazione, o in tecnologia, resta uno spunto che può esserci d’ispirazione: quando ci ritroviamo incagliati non dobbiamo allargare la strada, nel tentativo di aumentare la domanda di qualcosa che non funziona. Il more of the same ci condurrà agli stessi, fallimentari risultati.
Dobbiamo, invece, cercare di generare una domanda nuova. Costruire autostrade a dieci corsie non risolverà mai il problema del traffico: finirà semplicemente per crearne di più.
Alla prossima Ellissi
Valerio
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