I due nemici dello storytelling
Del perché raccontare storie dovrebbe tornare al centro della missione del giornalismo.
Ciao,
che bello rivederti su Ellissi, che anche oggi è gratis grazie a Palabra, l’agenzia verticale sull’email marketing e automation.
Io vi consiglio la loro newsletter Email marketing a colazione.
Buona lettura!
Valerio
I due nemici dello storytelling
Quello del giornalista è un mestiere complesso.
Fare giornalismo, infatti, significa tante cose: documentare i fatti, indagare i poteri e i potenti, aiutare le persone a capire che cosa accade e perché.
Ma fare giornalismo è anche un mestiere che permette di raccontare storie.
E di fare in modo che le persone capiscano perché qualcosa accade anche grazie a quelle storie.
Nell’informazione, il modo in cui alcune storie vengono raccontare fa la differenza: il tono, il linguaggio, il tatto e la sensibilità sono ingredienti fondamentali in un reporting accurato.
Anche se ormai il termine è abusato dal marketing, è innegabile come nel giornalismo lo storytelling abbia sempre avuto un ruolo importante, da Buzzati ai nostri anni: saper “raccontare bene” spinge le persone a interessarsi a un determinato tema.
Se oggi viviamo in una grande crisi di fiducia nei media, è anche perché il giornalismo sta perdendo questa capacità. Si sta desensibilizzando.
La crisi economica del settore, la guerra del click - da cui non siamo ancora usciti - e la competizione per l’attenzione tra testate e social non hanno solo abbassato gli standard giornalistici, hanno anche tolto spazio alle storie.
Si può “fare giornalismo” con le storie? Sì. Lo vedo da quanto cliccate gli articoli che seleziono in fondo a ogni newsletter, dove cerco di consigliarvi non solo cose utili, ma anche piacevoli da leggere.
Ma è anche vero che online c’è tanto contenuto che non riesce a centrare questo obiettivo: e cioè essere utile, ma anche piacevole da leggere.
C’è tanto contenuto che non è né una né l’altra cosa, ma che nasce per altri scopi. La frase anglosassone «se sanguina fa notizia» - if it bleeds, it leads - è ancora molto seguita nel giornalismo.
Si tende a dare priorità a storie sensazionalistiche di violenza, tragedie e disastri che catturano l'attenzione del pubblico.
E questo, lasciatemelo dire, non è colpa di internet: succede da secoli.
Lo story-yelling e lo story-selling
Il buon storytelling nell’informazione si deve confrontare con due nemici principali, credo.
Il primo lo chiameremo «story-yelling»: la necessità di “urlare” più degli altri, di evidenziare il dettaglio morboso, di sparlarla grossa. Di riempire pagine con casi di cronaca, innescando un circolo tutt’altro che virtuoso, in cui si fa fatica a distinguere informazione e rumore.
Il secondo lo chiameremo «story-selling»: la tendenza a “vendere” una storia come una merce. Articoli a pagamento non dichiarati, ripubblicazione massiccia di comunicati stampa, e in generale la tendenza a un abbassamento degli standard editoriali e deontologici.
L’antidoto? Siete voi
Io credo in un giornalismo che sappia usare dati e fatti, e che sappia verificarli. Ma anche in un giornalismo che sa anche raccontare storie, senza ricorrere allo “yelling” né al “selling”.
Me lo ha ricordato il DIG Festival, conclusosi qualche settimana fa a Modena, dove ho visto persone riuscire ad entrare in un tema come mai prima grazie al potere dei documentari, formato di approfondimento che costringe a rimettere al centro il racconto.
Lo storytelling non è dunque un male necessario, ma un antidoto.
Anche perché le attuali tendenze devianti - quella dello story-yelling e dello story-selling, appunto - non funzionano nel lungo periodo. Sono anzi deleterie, sia per i modelli di business, sia per quelli editoriali.
Lo story-yelling fallisce perché le persone non ascoltano quando urliamo. Magari sentono o vedono, ma il messaggio non gli arriva. E quando anche gli arriva, lo fa in modo parziale e distorto.
Lo story-selling fallisce perché le persone si accorgono se quello che raccontiamo non è vero né trasparente. E il segno che questa scoperta lascia è una delusione quasi indelebile, difficile da riparare.
Fin dall’antichità noi esseri umani siamo dipesi dalle storie per la nostra stessa sopravvivenza.
Come ha detto la scrittrice Lisa Cron, «le storie sono state fondamentali per la nostra evoluzione, più dei pollici opponibili. I pollici opponibili ci hanno permesso di aggrapparci; le storie ci hanno detto a cosa aggrapparci».
Questo mi auguro, allora, per il giornalismo.
Che ritorni a raccontare, prima di tutto, con un senso profondo di umanità. E poi che lo faccia nell’interesse delle lettrici e dei lettori, e non di qualcun altro.
Ce n’è più bisogno che mai, soprattutto di questi tempi.
Alla prossima Ellissi
Valerio
Email Marketing a colazione
Palabra è l’agenzia verticale sull’email marketing e automation, fondata da Alessandra Farabegoli, Marco Ziero e Nicole Zavagnin.
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Nella mia reading list
🟡 Una rivoluzione giornalistica nel diciannovesimo secolo che scatenò attivisti, influencer e disinformazione.
🟡 Google potrebbe davvero essere suddivisa in tante aziende separate? La possibilità è remota, ma non più così impensabile.
🟡 Il pezzo definitivo sulla dead internet theory: la teoria secondo cui online siano rimasti pochissimi esseri umani.
🟡 Per altro, c’è una chiesa che esiste solamente su Internet.
🟡 Anche Wikipedia non è più l’eden con gli unicorni arcobaleno che speravamo che fosse.
🟡 Di chi sono i dati digitali delle popolazioni indigene?
🟡 È nato un nuovo media in Spagna, conosco chi lo fa, e posso solo dire che promette bene.
🟡 Queste foto desecretate dell’esercito americano sembrano uscite da una sfilata di moda.
🟡 E infine, sta succedendo un gran casino dalle parti di Wordpress.
Condivido tutto ma segnalo che questo è solo un aspetto del giornalismo, che piace sempre di più su Internet.
Non mi aspetto infatti che un giornalista economico o d'inchiesta mi spieghi tutto, credo che sarebbe tecnicamente impossibile, ma che metta in ordine i dati e mi fornisca un interpretazione libera da pressioni sì.
Grazie per l'articolo!
Tvb